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Buoni spesa per le mamme che allattano

Un buon numero di agenzie, blog e giornali online ha riportato e commentato in questi giorni una notizia proveniente dall’Inghilterra secondo la quale le mamme potrebbero ricevere fino a 200 sterline in buoni spesa nel caso riescano ad allattare fino a 6 mesi. Leggendo questi notiziari si resta stupiti dalle differenze nel riportare la stessa notizia (si tratta di un programma del governo inglese, di un programma regionale, o di un progetto di ricerca? Interessa tutte le mamme inglesi, tutte le mamme di una regione, o solo una parte? Cercare con Google per credere!) e quindi dalla diversità dei commenti sia positivi che negativi. Dato che la stessa variabilità si riscontra se si vanno a leggere i corrispettivi notiziari inglesi, abbiamo pensato di andare a leggere il comunicato stampa originale emesso dall’Università di Sheffield (http://www.sheffield.ac.uk/news/nr/breasting-incentive-for-new-mums-1.325892), come in teoria dovrebbe fare qualunque giornalista serio.

Contrariamente a quanto riferiscono i notiziari di cui sopra, il comunicato stampa originale dice che si tratta di un progetto pilota per studiare la fattibilità di offrire buoni spesa alle mamme di due quartieri delle contee di Derbyshire and South Yorkshire. Scrivendo all’e-mail fornita dall’università in calce al comunicato stampa, si apprende che questo test pilota interesserà 130 madri tra quelle a reddito più basso nei due quartieri.

Se il progetto pilota dimostrerà che l’iniziativa è fattibile, inizierà un vero e proprio progetto di ricerca, con un campione maggiore di madri a basso reddito, per valutare i potenziali effetti positivi in termini di prevalenza e durata dell’allattamento, e per escludere che vi siano effetti negativi.

Come per tutti i progetti di ricerca, i risultati finali saranno pubblicati e resi noti alle autorità sanitarie locali e nazionali. Se queste considereranno che l’iniziativa offre più vantaggi che svantaggi, rispetto ai costi, potrebbero decidere di estenderla facendola diventare programma di governo, locale o nazionale. Come tutte le decisioni di questo tipo, le autorità sanitarie locali e nazionali prenderanno in considerazione anche la convenienza politica dell’intervento, oltre che i possibili benefici per individui e collettività. Ci vorranno ovviamente molti anni prima di conoscere i risultati della ricerca, e molti ancora per sapere se l’iniziativa entrerà a far parte delle politiche sanitarie locali, nazionali o internazionali, ammesso che ci arrivi.

Come si può facilmente constatare comparando questa versione con le decine di altre versioni disponibili, siamo ben lontani dal parlare di un programma in atto.

Siamo ancora nell’ambito della ricerca, e come per qualsiasi ricerca bisogna aspettare i risultati prima di avventurarsi in commenti. Qualcosa, tuttavia, si può già dire.

Si può notare, per esempio, che il progetto si muove in un ambito ben conosciuto; quello degli incentivi finanziari per la promozione della salute. Sono interventi che si fanno da anni per gli obiettivi di salute più diversi; dalle vaccinazioni alla nutrizione, dai controlli prenatali al parto protetto, e chi più ne ha più ne metta. Incentivi simili si usano anche in ambito extrasanitario, come iscrivere i figli a scuola o acquistare dei giocattoli educativi.

In inglese questo si chiama conditional cash transfer, cioè “trasferimento di denaro condizionato a…” (e qui basta aggiungere a cosa). Le ricerche svolte finora in decine di paesi in tutti i continenti mostrano in generale risultati positivi, tanto che molti governi (dall’India al Brasile, dal Quebec alla Norvegia) usano da anni i conditional cash transfer per raggiungere obiettivi di salute che ritengono prioritari. Ancora più importante: essendo i conditional cash transfer dei veri e propri trasferimenti di risorse dai ricchi ai poveri (il denaro solitamente lo si prende dalle tasse pagate dai più ricchi), molti governi li considerano strumenti per ridurre diseguaglianze e iniquità, per far raggiungere cioè anche ai poveri, che di solito hanno più ostacoli e difficoltà dei ricchi, uno stato di salute ottimale.

Questo è sicuramente il razionale dei ricercatori dell’Università di Sheffield. Essi sanno benissimo, perché lo mostrano statistiche e studi provenienti non solo dall’Inghilterra, ma da moltissimi altri paesi (Italia compresa), che le donne di bassa classe sociale (a basso reddito, meno istruite, con occupazioni precarie e non professionali) allattano molto meno delle donne ricche, istruite e con un buon lavoro. E vogliono vedere se un incentivo finanziario, 120 sterline se allattano fino a 3 mesi, altre 80 se arrivano a 6 mesi, può contribuire a ridurre queste disuguaglianze.

Non sarà sicuramente sufficiente: se una donna che allatta ha difficoltà ad attaccare al seno il suo bambino, o è affetta da una mastite, a nulla le serviranno i buoni spesa. Avrebbe bisogno di poter accedere a una persona, operatore sanitario o mamma alla pari che sia, che le dia aiuto pratico per risolvere il suo problema concreto. E può darsi che la ricerca mostri che, più che i buoni spesa, è necessario garantire accesso universale e gratuito all’aiuto di cui ha bisogno. O che sia meglio investire perché ospedali e maternità facciano meglio il loro lavoro. Ma noi crediamo che il progetto dell’Università di Sheffield abbia un senso e che valga la pena portare a termine la ricerca. Perché anche noi pensiamo che le diseguaglianze in allattamento che constatiamo ogni giorno in Italia e altrove siano insopportabili e meritino attenzione prioritaria.

 

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Segreteria IBFAN

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